Il senso di appartenenza in un tempo di isolamento
Siamo stati creati per avere comunione con Dio e con gli altri. Che cosa facciamo allora in un tempo di distanziamento sociale? Come viviamo i legami con gli altri mentre siamo costretti a rimanere chiusi in casa?
Molti stanno studiando la pandemia influenzale del 1918 (la cosiddetta “spagnola”) alla ricerca di una risposta, ma la mia mente continua a ritornare ai bombardamenti di Londra durante la seconda guerra mondiale dal settembre 1940 al maggio 1941.
Anche se non ci troviamo nella stessa situazione di essere vittime di una violenta campagna di bombardamenti, possiamo fare alcuni paralleli interessanti. Come altri hanno detto, questa pandemia è scatenata da un nemico invisibile. Invece che con bombe sganciate da aerei, abbiamo a che fare con microbi sulle superfici o nell’aria che respiriamo. Invece di vivere l’orrore di una distruzione indiscriminata provocata da un bombardamento, assistiamo sgomenti alla morte di esseri umani nelle nostre famiglie e comunità. La pandemia non sta colpendo soltanto una città o una regione; è un trauma condiviso dall’intera razza umana.
Sebastian Junger, pluripremiato giornalista e corrispondente di guerra, mette opportunamente in evidenza il lavoro di Charles E. Fritz nel libro Tribe. Fritz, un sociologo americano e uno dei padri della ricerca sui disastri, fu inviato in Inghilterra dallo USSBS (uno studio condotto dal governo degli Stati Uniti sugli effetti dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, N.d.T.). Il suo compito era quello di capire se il “London Blitz” e, successivamente, il grande bombardamento di Berlino, erano stati efficaci. Fritz scoprì che, anziché distruggere il morale della popolazione, era avvenuto il contrario. Le comunità sottoposte alle campagne di bombardamento diventarono più unite nella loro resistenza. Fritz osservò che, anziché farsi prendere dal panico, “la gente impiegava in massa le sue energie per il bene della comunità e non solo per se stessa”.
Fritz infine elaborò una teoria secondo cui i disastri, sia quelli causati dall’uomo sia quelli naturali, creano quella che egli definì “una comunità di sofferenti” e che essa “permette agli individui di sperimentare un legame con gli altri estremamente rassicurante”. Egli osservò che, nel bel mezzo di questi terrori e minacce, “le differenze di classe sono temporaneamente cancellate, le disparità di reddito diventano irrilevanti, la razza è ignorata e gli individui vengono giudicati soltanto in base a quello che sono disposti a fare per il gruppo”.
Il desiderio di appartenenza
Sebbene la teoria di Fritz di una “comunità di sofferenti” unita ed equa possa apparire utopistica, contiene qualcosa che vale la pena considerare. Il lavoro di Sebastian Junger evidenzia un fenomeno che egli ha osservato tra i veterani che ritornavano in patria dal campo di battaglia. La sua intuizione fondamentale è che, pur potendo supporre che ci sia qualche problema con i veterani o con chi ha vissuto catastrofi, il problema spesso siamo noi. Siamo noi quelli che non capiscono il senso di appartenenza e di legame. Viviamo in tante torri isolate tra loro, invece che in comunità profondamente legate.
La spiegazione cristiana per la prosperità umana è radicata nell’idea di amore: amore per Dio e amore per il prossimo, con implicazioni per il modo in cui una persona si relaziona alla terra e anche a se stessa. E’ così che le cose avrebbero dovuto essere. Il peccato ha però devastato ognuna di queste relazioni.
Nel nostro mondo decaduto, la chiesa ha lo scopo di offrire uno spazio in cui Dio può riallineare i nostri affetti, riportandoli al loro posto originario. La chiesa dovrebbe essere il posto dove poter affrontare e superare la nostra vergogna e colpa davanti a Dio. La chiesa, nella sua migliore espressione, riconosce il piano relazionale di Dio per gli uomini, e non si limita a promuovere programmi, ma a favorire vite condivise.
La chiesa è anche destinata ad essere il luogo in cui la grazia ristabilisce e unisce persone che non sono naturalmente attratte l’una dall’altra. La comunità si riunisce non perché i suoi membri sono molto simili, ma perché il loro Signore e Creatore li chiama a mettere da parte le loro differenze per unirsi insieme nell’adorazione.
Ora abbiamo raggiunto il problema di questa pandemia: Che cosa facciamo quando non possiamo riunirci fisicamente ed entrare in questo spazio speciale messo da parte da Dio?
Il desiderio di sentirsi necessari
Oltre ad evidenziare il bisogno umano di appartenenza, Junger coglie un altro potente impulso umano quando conclude: “Per gli esseri umani le difficoltà non sono un problema, infatti gli uomini prosperano in esse; ciò che a loro dispiace è non sentirsi necessari. La società moderna ha perfezionato l’arte di non far sentire le persone necessarie”.
Molti di noi stanno sperimentando questo in abbondanza: ci sentiamo non necessari, inutili e disconnessi. L’unica cosa a non essere “buona” in Genesi 1 era l’isolamento dell’uomo. Il Creatore ci ha fatti per essere in comunione. Pensiamo alle persone molto giovani e a quelle molto vecchie che conosciamo. Stiamo comunicando loro che sono necessarie, o che sono solamente vulnerabili? Dio ci ha creati per la comunità e l’interdipendenza; Dio ci ha creati per avere bisogno gli uni degli altri.
Considerata la natura atipica di questa crisi, stiamo affrontando una seconda minaccia che va oltre la malattia: non abbiamo nemmeno gli uni gli altri. Abbiamo bisogno di sentirci necessari, e tuttavia i modi naturali in cui potremmo prenderci cura degli altri e ricevere la loro compagnia e cura sono attualmente impossibili. Regole su quarantena e distanziamento sociale ci tentano a ritirarci ancora di più in noi stessi, ad affrontare da soli la disperazione e la difficoltà. Ma dobbiamo resistere con coraggio a questo isolamento, non violando le giuste disposizioni del governo, ma imparando nuovamente a coltivare la comunione con Dio e con il prossimo in questo tempo surreale.
Spesso non sappiamo cosa ci manca finché non ci viene tolto. Purtroppo, la maggioranza degli esperti ritiene che siamo all’inizio di questa crisi, e non alla fine. Eppure, anche adesso, possiamo ricordarci quanto è importante il senso di appartenenza e il sentirsi necessari.
Isolati insieme
Per ritornare alla mia domanda iniziale, che cosa facciamo per soddisfare il bisogno di relazione con cui siamo stati creati? Penso sia utile essere consapevoli delle nostre relazioni. Siamo stati creati per essere in relazione con Dio, con il prossimo, con noi stessi e con la terra. Non dobbiamo trascurare le nostre relazioni in questa stagione.
Come fecero gli inglesi negli anni quaranta mentre le bombe cadevano intorno a loro, non dobbiamo lasciare che la paura ci paralizzi. Come loro, dobbiamo combattere intensamente per l’unità, l’equità e la comunità. Telefoniamo agli amici che amiamo e di cui sentiamo la mancanza. Scriviamo biglietti di incoraggiamento ed empatia a coloro che stanno soffrendo o che sono soli. Uniamo i nostri cuori attraverso espressioni concrete di generosità nei confronti di chiese, individui e organizzazioni che hanno un disperato bisogno di noi in questo momento.
Dio promette che se noi ci avviciniamo a lui, egli si avvicinerà a noi. Preghiamo, annaffiamo le piante, facciamo dei respiri profondi e usiamo le nostre voci per raggiungere gli altri con parole preziose che esprimono coraggio ed empatia. Pronunciamo—e ascoltiamo—parole vivificanti che comunicano un senso di appartenenza reciproca.
Che possa essere veramente così.
Kelly M. Kapic è professore di studi teologici presso il Covenant College di Lookout Mountain, Georgia. E’ un pluripremiato autore e curatore di oltre 15 libri, tra cui Embodied Hope (IVP Academic, 2017), The God Who Gives (Zondervan Academic, 2018), e Becoming Whole scritto con Brian Fikkert (Moody, 2019).
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