Nel matrimonio, come nella vita, essere deboli significa essere forti

Hai mai notato che la batteria di un telefono cellulare non dura più come prima dopo aver scaricato qualcosa o aggiornato il dispositivo? Ormai sai come funziona: aggiorna > stacca la spina > corri come un pazzo in cerca del caricabatterie.

Non riesco a capire.

CI sono uomini che hanno vissuto nello spazio per un anno e che hanno telefonato a Houston per chiedere i risultati delle partite senza avere nessun problema con la batteria. Ma qui sul pianeta Terra, trovare una batteria per un cellulare che duri a lungo è ancora un miraggio. Ma aspetta un attimo: questa nostra frustrazione in realtà è intenzionalmente studiata a tavolino; è una tecnica di vendita all’interno di uno schema organizzato.

Nelle scienze economiche e nella progettazione industriale, esiste una strategia di commercializzazione chiamata obsolescenza programmata. E’ un termine ricercato per descrivere un prodotto che è stato creato per avere un ciclo di vita limitato in modo artificiale. Lo scopo del difetto di progettazione è prepararti al prossimo aggiornamento.

I produttori rendono i loro prodotti obsoleti dopo un certo periodo di tempo in modo che i loro clienti ritornino ad acquistare l’ultimo modello. I profitti aumentano creando bisogni.

Il piano si regge su un principio molto semplice: la debolezza incorporata porta alla dipendenza.

Lo sapevi che un principio simile è all’opera nell’economia di Dio? Questo principio va in scena  ogni settimana nel matrimonio cristiano. Dio installa limitazioni, sofferenze, dolori e spine nelle nostre vite per renderci dipendenti da lui. Un aspetto ironico del matrimonio è che ben presto esso rimuove il velo che copre le nostre imperfezioni. Nel caso dei celibi, la debolezza viene a galla in altri modi.

Paolo sperimentò gli effetti di questo piano dopo il suo magnifico e misterioso viaggio al terzo cielo (2 Cor. 12:2-10). Questa esperienza lo trasformò, ma non nel modo che potremmo pensare.

Una delle ironie della nostra caducità è che a volte anche le migliori esperienze ci portano a essere egocentrici. Il nostro cuore esulta nell’esperienza del buono anziché nel Donatore del buono. Così, con un atto d’amore, Dio prende le cose in cui esultiamo di più—cose come uno splendido matrimonio o un percorso genitoriale gestibile—e le trasforma in situazioni che rivelano il nostro bisogno disperato di lui. Per impedirci di esaltarci stoltamente, Dio mette una spina nella nostra vita che ci fa tenere aggrappati al nostro Salvatore.

Parlando di spine, ci sono tantissime speculazioni circa l’esatta natura della “spina nella carne” di Paolo. Alcuni commentatori suggeriscono che si trattasse di un’infermità, altri dicono che fosse la persecuzione, altri ancora una limitazione fisica, come forse un problema all’occhio o un difetto nel parlare. Non lo sappiamo con certezza.

Ma quello che sappiamo è sufficiente.

Sappiamo, per esempio, che questa spina diventò un’enorme afflizione. Per quale altro motivo un uomo che ha sofferto l’orrore di ricevere 39 colpi in cinque diverse occasioni, che è stato battuto con le verghe tre volte e lapidato una (2 Cor. 11:24-25) avrebbe avuto bisogno di rivolgersi a Dio ripetutamente per essere liberato?

La spina di Paolo—la su “debolezza incorporata” — era sufficientemente significativa per ottenere tre effetti nella sua vita.

1. Dio ha usato la debolezza di Paolo per proteggerlo.

Dio ha usato la sofferenza per mantenere Paolo sobrio nel suo giudizio di sé, per orientare la direzione e la destinazione del suo diletto. Hai notato che Dio fa la stessa cosa con noi? Egli manda una spina in qualche area della nostra vita dove il nostro orgoglio e la nostra auto-esaltazione ci distruggerebbero se essa non ci fosse. Paolo avrebbe potuto gonfiarsi a causa del suo rapimento al terzo cielo, ma insieme a quella grande benedizione, Dio gli mandò un grande dolore.

Un grande onore fu seguito da una grande debolezza.                                                                                                     Amici, non siamo dei piccoli dèi. Non siamo né onniscienti, né onnipotenti, né onnicompetenti. Certo, a volte pensiamo di essere elevati a questo stato, ma poi Dio ci riporta sulla terra attraverso un’esperienza di debolezza. Forse è un paraurti ammaccato, un conto in banca in rosso, un test fallito, un figlio prodigo o l’insorgere della depressione.

La mia esperienza di debolezza è l’aver dovuto viaggiare per anni con un cuscino per la schiena per via di un artrite lombare. Ma Dio ci ricorda che c’è un piano per queste debolezze quotidiane. L’obsolescenza del mondo, e le situazioni in cui questa caducità ci tocca, frena il nostro orgoglio mentre impariamo a dipendere da Gesù.

2. Dio ha usato la debolezza per trasformare il vanto di Paolo.

Ho conosciuto molti uomini che hanno iniziato il loro matrimonio con una certa spavalderia e saccenza. Io ero uno di loro. Nel mio modo di pensare di celibe, il matrimonio come marchio aveva subito un serio colpo e aveva bisogno di nuove leve per rimediare al danno d’immagine. E’ divertente. Quando siamo forti (o pensiamo di essere tali) possiamo facilmente cadere nel vanto. E’ facile parlare di noi, cadere nella presunzione, o nella versione più cristianizzata dell’innocente “vantarsi umilmente”.

In diversi momenti della sua vita, Paolo confessò la sua tentazione a vantarsi nelle sue credenziali (Filippesi 2:4-6), nei suoi doni (1 Cor. 14:18) e nelle sue esperienze spirituali (1 Cor. 12:5-6). Ma Dio usò la sofferenza per mostrargli che tutte queste cose sono come un nulla di fronte alla conoscenza di Cristo. Invece di vantarsi in se stesso, Paolo imparò a vantarsi solo nel Signore (1 Cor. 1:26-31).

Negli ultimi dieci anni, Dio ha più volte messo me e Kimm in situazioni in cui l’unico modo per andare avanti era dipendere da lui in preghiera. Nel piegare i nostri cuori davanti a lui, ricordiamo inevitabilmente il nostro bisogno di lui e la nostra dipendenza da lui. In quello stato di debolezza, Dio spesso concede la sua forza.

Paolo ci dice: “Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza” (2 Cor. 11:30). Perché avrebbe dovuto vantarsi della sua debolezza? Questo ci porta all’effetto finale che Dio compie attraverso le sofferenze di Paolo.

3. Nella sua debolezza, Paolo trovò la grazia e la potenza di Dio.

Dio compie la sua opera migliore quando la sua potenza è all’opera nelle situazioni in cui riconosciamo i nostri limiti, la nostra inabilità e il nostro bisogno reale di lui. Capire questo mi ha reso umile. Dio non ci condanna per la nostra debolezza. Egli ha deciso invece di fare delle nostre limitazioni (i cerotti della nostra obsolescenza umana) i momenti in cui la sua potenza prevale. Egli adotta una tattica di gioco che alla fine confonderà i sapienti ed esalterà gli umili: “Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti” (1 Cor. 1:27).

Paolo si vantava nella debolezza perché sapeva che è lì che Dio è visibile dentro e fuori di noi. Nella debolezza vediamo la potenza di Dio all’opera. Il Creatore progetta il difetto che produrrà la debolezza. Obsolescenza programmata, ma provvidenziale.

La sua potenza e la sua gloria, non la nostra

E’ strano, ma ho lasciato il porto a bordo della grande nave del Matrimonio credendo effettivamente che le mie debolezze sarebbero diminuite man mano che il mio matrimonio sarebbe cresciuto. Conoscerci meglio e condividere gioie e dolori ha senz’altro fornito un solido fondamento per formare tanti ricordi e resistere ad alcune grandi tempeste.

Ma la verità è che anche una cosa così bella come il matrimonio rimane difficile, perché Dio ha un progetto incorporato che va ben oltre l’eliminazione delle nostre debolezze. Dio desidera manifestare la sua potenza e la sua gloria, non la nostra. E il palcoscenico per questa ribalta spesso sono quei punti di debolezza che producono dipendenza incorporata. Perciò, prendi la mano del tuo coniuge, e ripeti insieme a Paolo: “Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte” (2 Cor. 12:10).

Essere deboli significa essere forti. Nella vita, nel matrimonio e nella fase del cambiamento. E’ proprio un gran bel piano.


Dave Harvey (DMin, Westminster Theological Seminary) è presidente di Great Commission Collective, un ministero per la fondazione di chiese negli USA, in Canada e altre nazioni. Dave è stato pastore per 34 anni, e viaggia molto tra i vari network e denominazioni come conferenziere. Ha scritto i libri When Sinners Say “I Do” (Shepherd Press, 2007), Am I Called? (Crossway, 2012) e il più recente I Still Do: Growing Closer and Stronger Through Life’s Defining Moments (Baker, 2020). Dave vive con la moglie Kimm in Florida. Scrive anche sul sito Rev Dave Harvey, e puoi seguirlo su Twitter.

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