Quando sacrifichi te stesso per le pecore

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Non mi piace sfogliare i vecchi elenchi dei membri di chiesa. Contengono i nomi di tante persone che non sono più qui, e mi sento fissare da facce che conosco molto bene, ma che non sono più presenti la domenica mattina. Vivere in un contesto periferico fluido come il nostro significa dover regolamente dire addio ai membri che si trasferiscono. Vivere in un quartiere consumista e con una massiccia presenza di chiese significa perdere regolarmente le persone insoddisfatte, e vivere in un mondo sotto la maledizione del peccato significa versare regolarmente lacrime su corpi che smettono di funzionare nella speranza della risurrezione.

Ogni nome in questi elenchi significa qualcosa per me, perché ogni nome ha una storia. Le loro storie non sono la mia storia, eppure sono in qualche modo intrecciate alla mia, come tanti fili che si distendono e si allungano attraverso il corpo di Gesù Cristo.

Guidare la chiesa con la pazienza di un genitore

Essere pastore di una chiesa è una chiamata particolare. Significa essere chiamati— da Dio e dalla congregazione—a guidare e servire, proteggere e insegnare, condotti e sostenuti dal doppio amore per Dio e per le persone. Nonostante tutta la professionalità che si desidera dai pastori americani, per me il pastorato non è un’attività aziendale da svolgere a distanza. Il pastore deve amare le pecore con la pazienza di un genitore, e morire per esse con un affetto cruciforme quando arriva il momento. Nessuna delle due cose è possibile a distanza, più di quanto l’incarnazione non sarebbe stata possibile se Gesù fosse rimasto nell’alto dei cieli.

Così come Cristo è sceso nella nostra polvere e vergogna per offrire liberamente il suo corpo in sacrificio per la nostra salvezza (Giovanni 6:53), così i suoi rappresentanti danno non solo i loro programmi e ore lavorative, ma essi stessi alle persone affidate alla loro cura. L’amore lega il pastore al popolo di Dio, estendendosi attraverso il tempo e lo spazio. Quando mi soffermo abbastanza a lungo a considerare il mistero di questa chiamata, e la mia agitazione dovuta a questo legame profondo con le pecore, condivido il timore e il tremore espressi nella domanda di Paolo: “E chi è sufficiente a queste cose?” (2 Corinzi 2:16).

Questa chiamata è come una freccia d’amore che trafigge la mia anima, intrecciando la mia vita a quelle delle persone che sono sotto la mia cura pastorale. Il loro dolore diventa il mio. Il loro combattimento contro il peccato diventa il mio peso. Il loro matrimonio che sta crollando diventa il mio dolore. Pregando, riflettendo, dedicando tempo e fatica, il pastore è il primo tra il gregge a portare i pesi delle pecore. Questo legame a doppio filo con il popolo di Cristo pesa su di me con una pressione cumulativa. E’ un peso strano, che si deposita un po’ alla volta anziché in modo improvviso. Ed è un’esperienza condivisa da pastori di ogni luogo, una conoscenza comune che può riguardare anche due persone che si incontrano per la prima volta.

La mia vita è intessuta nelle storie delle persone che amo, e perciò non mi piace scorrere vecchi elenchi. Ogni nome racconta una storia. Alcune sono storie del mio fallimento, ricordi di parole difficili che avrei dovuto dire con amore. Consapevolezza del tempo che avrei dovuto dedicare, anche se la situazione era fonte di imbarazzo. Rimpianto per non aver saputo capire quanto profonde fossero le loro ferite, che ho inavvertitamente esacerbato. Ogni nome mi ricorda un debito d’amore arretrato da parte mia.

Le storie delle persone che amo sono intrecciate alla mia, ed è per questo che mi addolora scorrere i nomi e ricordare i fili strappati via da me. Echi di amicizie e di compagnie, rotte dal tradimento e dalle critiche. Grosse corde di amore costoso riversato per curare ferite lacere e profonde, strappate da dichiarazioni improvvise che no, ci dispiace, non stiamo facendo abbastanza. Linee scure di conflitto, tagliuzzate da chi ha preferito lasciare la chiesa che guarire. Fili preziosi, fitti, intrecciati, improvvisamente tagliati per una questione secondaria rivestita di un’importanza eccessiva.

Anche se il dolore varia, una cosa è aiutare una famiglia a dire addio a un proprio caro nella speranza della risurrezione, o mandare santi preziosi verso nuove aree geografiche con la nostra benedizione; un’altra cosa è ricevere “la email” o venire ignorati. Il dolore è sempre dolore. Ogni voce dell’elenco è una voragine aperta nel mio cuore dall’amore.

Mi sono abituato al dolore. Quindici anni fa, quando ero un giovane pastore associato, ricevetti la mia prima email con oggetto Ce ne stiamo andando. “Non stiamo più frequentando la chiesa”, diceva. Come niente fosse, una rispettata famiglia che faceva parte della leadership se ne era andata, la loro appartenenza alla chiesa cancellata come si cancella un abbonamento alla palestra per inattività. Conservo una collezione di lettere, email e telefonate di questo tipo nelle stanze della mia memoria. Ognuna di esse è la una testimonianza di un filo che si strappa.

Tutto questo suona melodrammatico? Forse lo è. Ma so cosa vuol dire avere la pelle spessa. I miei quindici anni di ministero pastorale mi hanno insegnato a prevedere lo strappo senza ritirarmi nell’isolamento. Ho sviluppato i calli senza diventare calloso. Ho imparato a confinare il passato nel passato.

Ma anche così, il dolore rimane.

Di recente sono stato contattato via email da ex membri che se ne sono andati in malo modo, ammonendomi severamente di non contattarli più. Ora però avevano bisogno che io garantissi per loro in modo da diventare membri di una nuova chiesa. Non parlavo con questi amici da tre anni, su loro richiesta. Con trepidazione e rischio, li chiamai. La conversazione fu sufficientemente civile, certamente onesta, e alla fine accettai di parlare con il loro nuovo pastore.

Nei giorni successivi alla telefonata, fui inondato da un diluvio di emozioni impreviste. La costellazione di torti subiti ancora irrisolti, perdonati, ma riapparsi in seguito a questo contatto casuale, faceva crescere dentro di me il dolore e la tristezza per l’amore respinto. Forse sono melodrammatico. Più probabilmente, sono solo un essere umano che cerca di amare.

Guidare la chiesa con braccia aperte

Ho spesso definito l’amore cristiano come “il donarsi per cercare il vero bene di un altro”. Se è così, allora la postura dell’amore deve essere una postura di braccia aperte. Amare vuol dire andare verso l’altro per il suo bene. Ma in un mondo ritorto su se stesso, avere le braccia aperte non è un atteggiamento sicuro. Andare verso un’altra persona in amore, per lasciare che la tua storia si inserisca nella sua, significa rischiare non solo il costo di cercare il suo bene, ma anche le ferite di perderla.

Stare al sicuro, nel modo più pieno, è possibile solo mantenendo gli altri a distanza usando il proprio braccio per proteggersi. Naturalmente, finché è la mia sicurezza emotiva a prevalere, amare è impossibile. Fino a quando proteggo me stesso dagli altri, non sono in grado di muovermi verso gli altri. Lo strano e meraviglioso lavoro del pastorato richiede una pelle spessa, se non altro per sopportare le ferite che inevitabilmente deriveranno da queste braccia aperte.

Non abbiamo bisogno di più pastori che trattano la chiesa come un’azienda; ne abbiamo già fin troppi. Abbiamo bisogno di pastori che seguono il Buon Pastore, che ha amato i suoi fino alla fine, inginocchiandosi per terra per lavare i loro piedi, anche quelli del traditore Giuda. Se siamo stati guariti mediante le ferite di Gesù, allora è certamente attraverso le ferite dei pastori che una chiesa impara che cosa significa amare.

Questi vecchi elenchi dei membri di chiesa mi perseguitano, come spettri di dolore. Eppure, nel contemplare il dolore che conosco così intimamente, scopro la vera gioia di questo lavoro. Non è un compito facile, ma ora capisco quanto splendide (e realizzabili) sono le parole di Paolo ai Corinzi: “E io molto volentieri spenderò e sacrificherò me stesso per voi” (2 Corinzi 12:15).


Bob Stevenson è un marito e un padre di quattro figli. E’ il pastore di Village Baptist Church nella città di Aurora (Illinois). Ha conseguito un Master of Divinity presso il Trinity Evangelical Divinity School e sta perseguendo una laurea in sociologia presso l’università Loyola di Chicago. La sua grande passione è incoraggiare e rafforzare la chiesa locale mediante la parola scritta e parlata. Puoi leggere gli articoli di Bob nel suo blog, e seguirlo su Twitter.

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