Cinque miti sulla depressione

Mito n°1: A me non succederà.

Quanto a me, nella mia prosperità, dicevo:

«Non sarò mai smosso».

O SIGNORE, per la tua benevolenza

avevi reso forte il mio monte;

tu nascondesti il tuo volto, e io rimasi smarrito. (Salmo 30:6-7)

L’eccesso di sicurezza di sé potrebbe non portare direttamente a un crollo o alla depressione, tuttavia sentirsi troppo sicuri di sé difficilmente ci prepara per l’uno o per l’altra. Davide si aspettava che la sua “prosperità” spirituale continuasse ininterrottamente. E’ il genere di atteggiamento di chi dice “finalmente sono arrivato” che molti di noi forse hanno avuto per un pò prima di imparare che la vita di solito non è sempre fatta di “pace e abbondanza”.1

Nemmeno il raggiungimento di questi obiettivi incerti ci preserva del tutto dal dover “sopportare le fiondate e le frecciate d’una sorte oltraggiosa”.2 Faremmo meglio ad aspettarci quello che la Scrittura ci promette sotto forma di sofferenza indesiderata e (si spera) immeritata. Altrimenti rischiamo di essere sorpresi da ciò di cui siamo stati ripetutamente avvertiti (1 Pietro 4:12).

La depressione può essere una prova difficile come qualunque altra, e lo sarà se pensiamo che noi “non saremo mai smossi”. La buona notizia—descritta chiaramente in questo Salmo—è che Dio ascolta il grido dell’afflitto, e risponde a questo grido con una liberazione in cui alla fine il lutto si trasforma in danza e canti di lode. Anche se non sono depresso, pensare che sia impossibile che capiti a me non mi prepara a essere particolarmente solidale con quelli che ne soffrono. Moltissime persone infatti sono gravemente depresse ad un certo punto della loro vita, a volte in seguito di una grave malattia clinica, di circostanze tristi, o per nessun motivo apparente. Qualora sopraggiungesse la sofferenza che la Scrittura promette, dobbiamo avere fiducia che Dio ci guiderà in essa nei modi che egli ha scelto.

Mito n°2: E’ tutto nella mia mente.

Se tu fossi uno spirito incorporeo, potrebbe essere vero. Sono propenso a dire che la nostra mente (allo stato attuale) è tutta nel nostro corpo. Mostrami una mente senza un corpo, e io ti mostrerò un corpo senza una mente. Chi siamo è definito da che cosa siamo: anime viventi (1 Corinzi 15:45). Benché spirito e corpo possono essere distinti, non possono (almeno in questa vita) essere separati (Giacomo 2:26). I riferimenti biblici sulla loro separazione (a differenza di quelli sulla loro unità) si riferiscono, per quanto mi è dato di capire, all’aldilà (ad esempio 1 Samuele 28, che descrive l’illecita evocazione di Samuele dal suo “riposo” dopo la morte da parte di Saul). Nella Scrittura troviamo sinonimi e termini equivalenti per indicare cuore, anima, spirito e mente, eppure intere teologie si basano su interpretazioni esegetiche di quell’unico versetto biblico che si riferisce a “spirito, anima e corpo” (1 Tessalonicesi 5:23) come se quella di Paolo fosse una lezione di anatomia e non una benedizione onnicomprensiva!

E quindi? dirai. Per cominciare, se sei depresso, la depressione di solito colpisce il tuo corpo in termini di sonno, energia, appetito e sensazione di benessere. Dall’altro lato, talvolta la depressione è il risultato di una cattiva salute fisica in uno o più modi. Un facile esempio è l’apnea notturna ostruttiva non curata. Questa condizione, soprattutto nelle sue forme più gravi, compromette la quantità e la qualità del sonno. Infatti, gran parte della notte è un continuo svegliarsi dal sonno e riaddormentarsi, per cui quella che è nota come efficienza del sonno è molto bassa. Inoltre, il sonno stesso è leggero e non riposante. Se ti è mai capitato di non dormire per un lungo periodo, ti renderai conto di quanto questo renda la tua vita miserabile sotto ogni punto di vista: scarsa concentrazione, poca lucidità, fatica che rallenta ogni attività, e irritabilità che aumenta. E questo accade a persone che non soffrono di depressione.

Le nostre menti sono “ospitate” nei nostri corpi e non ne sono scollegate funzionalmente o meccanicamente. Di solito abbiamo l’impressione che le nostre “menti” siano al centro del nostro essere, ma quando riceviamo delle brutte notizie inaspettate, i nostri “cuori” sentono dolore e il nostro centro sembra essersi in qualche modo spostato. I nostri cervelli e le altre parti della nostra persona che pensano, sentono e conoscono fanno tutte parte di un unico corpo. Il motivo per cui Paolo, parlando della chiesa, poteva usare il corpo come metafora dell’unità e non della divisione è che il corpo è veramente un’unità. E’ uno.

Mito n°3: Non ho certamente bisogno di cure mediche.

“Quella terapia mi ha ridotto a uno zombie!” è la lamentela più comune che ricevo dai pazienti che vengono a curarsi da me dopo essere stati curati da altri medici. Cancellare un’esperienza negativa con i farmaci può essere una vera e propria sfida e la mia risposta iniziale è rassicurare che il mio compenso non è legato alla quantità di farmaci che prescrivo (se ne prescrivo), e che non possiedo stock di medicine di nessuna azienda farmaceutica.

Continuo dicendo che i farmaci non sono sempre indicati, e che nella mia carriera molte volte ho tolto medicine poco adatte alla sintomatologia del paziente o che erano state prescritte in dosi più alte del necessario, o che erano da assumere insieme a così tanti altri farmaci da rendere difficile sapere quale medicina stesse facendo cosa, sia in termini di effetti desiderati sia di effetti collaterali indesiderati. Avverto il paziente che evitare di assumere troppo poche medicine è altrettanto importante di evitare di assumerne troppe. Se nessuna medicina è indicata, allora una è troppo. E’ anche vero comunque che se una è indicata, allora nessuna è troppo poco. Come diceva il mio tutor3 “”Solo la giusta dose è necessaria”.

Continuo poi dicendo che i farmaci molto spesso sono utili e molte volte sono necessari per guarire dalla depressione, anche se da soli non sono sufficienti per la guarigione. Generalmente sono necessari anche altri tipi di interventi. Per esempio, la Terapia Comportamentale Cognitiva (CBT) è un approccio formalizzato per individuare le false presupposizioni, modificarle, e poi verificare le nuove presupposizioni mediante i cambiamenti nel comportamento. Per quanto la CBT si sia dimostrata efficace, se effettuata nel modo corretto è una terapia rigorosa e a volte molto pesante. Molte persone hanno bisogno di assumere farmaci prima di poter iniziare efficacemente la CBT, al fine di creare una piattaforma di stabilità affettiva (ovvero emotiva) che può essere sfruttata in modo positivo grazie alla CBT.

La riluttanza ad assumere farmaci è però piuttosto comune e non è affatto nuova. Credo sia utile pensare ai farmaci come a uno dei diversi mezzi che Dio può usare per portare alla guarigione. Può Dio guarire intervenendo direttamente senza nessun intermediario? Sicuramente. Lo fa. Siamo liberi di pretendere che egli lo faccia? Sicuramente no. Ci sono fin troppi esempi biblici in cui vediamo Dio usare dei mezzi per portare alla guarigione, e anche se non voglio insinuare che ciascuno di essi sia una forma di cura medica, alcuni lo sono.

Ezechia, dopo aver pregato per la guarigione e dopo che gli fu risposto che la sua preghiera sarebbe stata esaudita, viene poi curato con un impiastro di fichi secchi (Isaia 38:21). Credo valga la pena notare che le indicazioni di Isaia su quella che potremmo chiamare una “poltiglia” avevano uno specifico fondamento logico: “e il re guarirà”. Quindi, benché Dio avesse già promesso la guarigione ad Ezechia, il mezzo di cui si è servito prevedeva una forma primitiva di medicina.

Allo stesso modo, a Naaman il Siro fu detto di bagnarsi nel fiume Giordano per essere guarito dalla lebbra (2 Re 5). Lo fece e fu guarito. Benché Gesù guarì il figlio del centurione Romano con un semplice comando, egli guarì almeno un uomo cieco spalmandogli del fango agli occhi e mandandolo in una certa vasca (Giovanni 9:7). Paolo disse a Timoteo di curare il suo stomaco e le sue altre frequenti indisposizioni con il vino (1 Timoteo 5:23).

Qualcuno di questi avrebbe potuto essere guarito se si fosse rifiutato di usare i mezzi stabiliti per la sua guarigione? Ne dubito, e sappiamo che Naaman lo stava quasi facendo. Giacomo, senza dubbio, fornisce un “protocollo” in più fasi per la guarigione del malato: chiamare gli anziani, confessare il peccato, ungere con olio, e pregare con fede. Oseremo omettere uno di questi passi e tentare la sorte?

No. Dobbiamo avvalerci di ogni mezzo che Dio ordina e provvede per la guarigione, inclusi (ma non soltanto) i farmaci quando sono indicati. Il mio incoraggiamento preferito a tale proposito è una preghiera che dice: “Grande ed Onnipotente Iddio, compi in lui, te ne supplichiamo questa tua misericordia, e rendi efficaci i mezzi per la sua guarigione”.4

Mito n°4: Non posso farci niente.

仕方がない, translitterato “shikata-ga-nai,” è un’espressione giapponese che significa “non puoi farci niente”.5 Indica un atteggiamento di disperazione. Come cristiani, abbiamo speranza, e dobbiamo resistere alla disperazione alla luce di questa speranza. Possiamo aspettarci di essere “tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo; perplessi, ma non disperati” (2 Corinzi 4:8-9).

Gandalf, uno dei miei personaggi preferiti da citare che esiste soltanto nelle menti dei lettori (ma non per questo in modo meno vivo), diceva che “la disperazione è solo per coloro che vedono la fine senza dubbio possibile. Non è il nostro caso”.6 E’ una tentazione quella di pensare che è il nostro caso quando non lo è, e quella di vedere un fine cattivo quando Dio ha qualcosa di completamente diverso in mente e in serbo. Eppure, è una tentazione alla quale molti di noi —se non tutti— sono vulnerabili.

In un certo senso, la disperazione è una forma estrema di incredulità, ed è il peccato che sta dietro a molti altri peccati, incluso il peccato della presunzione che dice: “Non può andare peggio di così”, quando in effetti può andare peggio e quasi sicuramente andrà peggio se agiamo in base a quella presunzione. La disperazione nega la grandezza di Dio e la sua bontà, e disprezza tantissime promesse della Scrittura da renderle quasi irrealizzabili.

Il salmista Asaf si ritrovò in questa condizione quando invidiava i prepotenti (Salmo 73), e questo lo portò a tormentarsi nello spirito. Non sapeva come interpretare le sue circostanze. Perché lui soffriva tanto quando quelli che ignoravano Dio sembravano stare meglio? Egli si rese conto che se avesse espresso in pubblico i suoi dubbi (come tendiamo a fare quando stiamo soffrendo) avrebbe tradito gli altri credenti. In che modo? Incoraggiandoli a diventare cinici. Sarebbe ingiusto definire il cinismo di Asaf “facile”, dato che diventò tale in seguito a una seria e sincera riflessione. Tuttavia, egli rimase senza nessuna chiara spiegazione, fino a quando ricevette un’epifania, o una “consapevolezza” come a volte viene interpretata. Ma è meglio osservare dove la ricevette prima di considerare in che cosa consistesse. Egli entrò “nel santuario di Dio”. E’ nell’adorazione comunitaria che Dio rivelò ad Asaf il mistero che fino ad allora gli era sfuggito.

Quando siamo inclini a pensare “non posso farci niente”, non è necessario conoscere il giapponese per respingere questo pensiero. Ci sono tantissime cose che si possono fare. Una cosa molto importante è continuare ad andare in chiesa e adorare con il resto del popolo di Dio, che è il luogo in cui dovremmo aspettarci di incontrare Colui che può fare qualcosa. Ci è espressamente ingiunto di fare così in Ebrei, e ci è esplicitamente proibito di fare diversamente (Ebrei 10:25).

Anche quando non sappiamo più cosa fare—e soprattutto quando non sappiamo più cosa fare—dovremmo andare in chiesa e partecipare alla vita della comunità come meglio possiamo, e aspettarci che lì riceveremo incoraggiamento poiché il versetto in Ebrei collega in modo esplicito l’adorazione comunitaria con l’incoraggiamento. Ci sono davvero tante altre cose che puoi fare; ma non trascurare questa che è fondamentale; è probabile infatti che ti porti a rivolgerti agli altri, come per esempio andare dal tuo medico di famiglia, parlare con il tuo coniuge, con i tuoi amici e con il tuo pastore, e anche a farti assumere i farmaci, se ti è stato indicato così. Perciò, “ci sono tantissime cose che puoi fare”. E alcune le devi fare.

Mito n°5: Nessuno sa quello che sto passando.

Uno degli atteggiamenti più pericolosi che riscontro è pressoché tipico della depressione: autocommiserazione e isolamento. Molti di noi ogni tanto si lasciano andare a questi atteggiamenti, e “leccarsi un po’ le ferite”, per così dire, non è sempre una cosa sbagliata. Quando però questo porta al genere di isolamento che rifiuta il conforto offerto dagli amici e dai famigliari, è una cosa certamente sbagliata. E quando va oltre a questo —e succede regolarmente —può diventare implicitamente blasfemo (se involontario).

A proposito del conforto offerto dagli amici, può essere respinto con un rabbioso: “Non hai nessuna idea di quello che sto passando!” Questa frase può essere perfettamente vera, ma questo non significa che il conforto non possa arrivare da quella direzione. Quando esigiamo da un potenziale consolatore l’identificazione come prerequisito, andiamo contro la Scrittura e il buon senso. Non chiediamo che un chirurgo soffra di appendicite prima di permettergli di togliere la nostra perforata, e nessuno rifiuterebbe di farsi curare il diabete da un medico che non ne soffre. La compassione pratica fa qualcosa di concreto per alleviare la sofferenza.

Tuttavia, desideriamo anche l’empatia e ne sentiamo il bisogno. Vogliamo essere capiti, e spesso crediamo erroneamente che chi non ha sofferto una cosa simile alla nostra non possa comprenderci sufficientemente. Questo può essere corretto nel giusto contesto e nelle giuste proporzioni, il che spiega l’utilità dei gruppi di sostegno per i sopravvissuti al cancro o per chi soffre di disturbo da stress post-traumatico. Aiuta molto avere qualcuno che sa come ti senti, anche se quella conoscenza emotiva non ci dà necessariamente l’aiuto di cui abbiamo bisogno. Mentre alcuni possono comprenderci ma non sono in grado di aiutarci in modo pratico, altri possono simpatizzare con ciò che stiamo patendo senza “sentirlo”, tuttavia sono disposti a fare qualcosa per la nostra condizione e sono in grado di farlo. Non dobbiamo chiedere all’empatia di dare quello che solo la comprensione può dare, né dobbiamo chiedere alla comprensione ciò che è offerto dall’empatia.7 Analogamente, quando abbiamo bisogno sia di empatia sia di comprensione, non dobbiamo accontentarci dell’una o dell’altra. Dobbiamo piuttosto permettere che possano giungerci da fonti separate.

La disperazione si presenta spesso sotto forma di una concezione egocentrica e distorta della sofferenza. Quando permettiamo alla nostra sofferenza di metterci a contatto con coloro che possono offrire una sincera empatia ma nessuna compassione concreta, corriamo il pericolo di rifiutare la compassione di coloro che consideriamo scarsamente empatici. E’ qui che facciamo bene a riflettere sulla natura universale della sofferenza e sulla capacità di una persona che ha ha sofferto in un modo un po’ diverso da noi di offrire una forma generale di conforto che, se debitamente accettata, può offrire un tipo di forza molto particolare, come suggerisce l’etimologia della parola confortare: con-fortare, che propriamente significa fortificare.

Quando iniziamo a sospettare che Dio non ci capisca e non abbia cura di noi, siamo su un terreno molto pericoloso. Ma è proprio su questo terreno che il popolo di Dio è tentato di rimanere durante avversità che ci lasciano perplessi. Quando pensiamo che Dio è insensibile e incurante, allora lo stiamo vedendo come nostro avversario, come qualcuno che ci sta negando il bene quando potrebbe facilmente concedercelo.

Possiamo vedere questo nella storia del popolo di Dio. Quando gli Israeliti si disperarono, accusarono Dio di averli ingannati e di essere malvagio. La disperazione ha come risultato e causa l’accusare Dio di agire in malafede. “Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto?” (Esodo 14:11). Implicito in questa accusa è che Dio è incompetente e malvagio, privo di empatia e compassione. Quando ci scagliamo contro una “provvidenza accigliata”, non corriamo forse il pericolo di emulare il loro errore?

D’altra parte, le Scritture ci dicono che abbiamo un sommo sacerdote che è “simile ai suoi fratelli in ogni cosa . . . poiché egli stesso ha sofferto la tentazione, può venire in aiuto di quelli che sono tentati” (Ebrei 2:17-18). Quando non meditiamo sulle sue sofferenze al posto nostro, non riusciamo nemmeno ad apprezzare la sua empatia e compassione. Nella nostra autocommiserazione e nel nostro isolamento, possiamo applicare a noi stessi il lamento di Geremia:

«Nulla di simile vi accada, o voi che passate di qui!

Osservate, guardate, se c'è dolore simile al dolore che mi tormenta,

e con il quale il SIGNORE mi ha colpita

nel giorno della sua ardente ira (Lamentazioni 1:12)

L’adattamento di questo versetto nel Messia di Handel puntualizza che c’è soltanto un uomo di dolore, “familiare con la sofferenza” (Isaia 53:3).

Familiare (a dir poco). Quando ci sentiamo soli nella nostra sofferenza, dobbiamo ricordare che Gesù ci capisce, avendo già sofferto egli stesso al posto nostro. Non accusiamo Dio di cattiveria o mancanza di interesse o compassione. Possiamo essere d’accordo sul fatto che in effetti la sua provvidenza può apparire accigliata, e che il “volto sorridente” a cui William Cowper fa riferimento può essere nascosto alla nostra vista.8 Ma rifiutiamo la disperazione in quanto indegna di coloro che Dio è venuto a salvare.

Chiediamoci piuttosto in che modo questo può influire sulle nostre sofferenze, così che possiamo avere “comunione con le sue sofferenze” come scrive l’apostolo Paolo (Filippesi 3:10). Forse nessuno sa quello che stai passando, tranne Gesù. Ma egli lo sa veramente.

Note:

  1. Francis A. Schaeffer, How Should We Then Live?: The Rise and Decline of Western Thought and Culture, L’Abri 50th Anniversary Edition (Wheaton, IL: Crossway, 2005), 11.

  2. Amleto di William Shakespeare.

  3. George E. Burch, MD (1910–1986).

  4. “A Thanksgiving for the Beginning of a Recovery,” The Book of Common Prayer (1928), 315.

  5. Makoto Fujimura, Silence and Beauty: Hidden Faith Born of Suffering (Downers Grove: InterVarsity Press, 2016).

  6. J. R. R. Tolkien, The Fellowship of the Ring (Houghton Mifflin Harcourt, 2012), 193.

  7. Per una breve e utile discussione, vedi “Feeling Your Pain” di Michael M. Rosen, The Weekly Standard, 17 marzo 2017.

  8. William Cowper, “God Moves in a Mysterious Way” (1773).


Michael S. Lundy (MD, Tulane University) è un medico specializzato in psichiatria infantile e per adulti. Ha esercitato la sua professione in diversi contesti: accademico, privato, pubblico, e governativo, in patria e all’estero. E’ un membro attivo di All Saints Anglican Church (ACNA) nell’area metropolitana di Atlanta. Gli piace leggere, scrivere, ascoltare musica, coltivare camelie e osservare la natura.

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