Un silenzio inquietante e inaccettabile

Quando lessi i vangeli per la prima volta, la ripetizione mi rendeva confuso. Perché raccontare quattro volte la stessa storia? Eppure fu grazie a quella ripetizione che m’innamorai profondamente di Gesù.

I vangeli mi invitavano dentro di essi, mi incoraggiavano a farmi domande su Dio, a scrivere il mio nome dentro la sua storia. Essi richiedevano un’onestà e un’apertura con Dio e con me stesso che non avevo mai sperimentato prima.

Ho anche contestato il Creatore stesso. Come ha potuto farlo? Che razza di Padre permette che il proprio Figlio sia torturato, umiliato, e crocefisso? Quello che forse mi metteva più in difficoltà era quando il Figlio gridò al Padre suo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27:46). E quale risposta il Figlio riceve dal Padre? Nessuna.

Gli studiosi della Bibbia a volte spiegano questo “silenzio dal cielo” come la reazione necessaria del Padre al Figlio che era diventato peccato a tutti gli effetti (2 Corinzi 5:21). L’Agnello di Dio senza macchia era diventato peccato per quelli che lo avevano tradito e crocefisso. Era diventato peccato per te . . . per me.

Questo doloroso silenzio potrebbe anche indicare l’indicibile dolore del Padre di fronte alle sofferenze del suo Amato. In entrambi i casi, è un silenzio che posso capire e accettare.

C’è tuttavia un secondo tipo di silenzio che non posso accettare.

La chiesa che l’Occidente non conosce

Per più di vent’anni, io e mia moglie abbiamo seguito un pellegrinaggio che ci ha portato a faccia a faccia con molti dei cristiani più duramente perseguitati dei nostri giorni. Questa fase del nostro ministero cominciò in Somalia, nella costa orientale dell’Africa centrale, una nazione che è stata devastata da una guerra civile che dura dal 1991. Osservare la nazione divorare se stessa era già abbastanza difficile; testimoniare la persecuzione dei seguaci Somali di Gesù è stato un peso insostenibile.

Le statistiche mi impressionano ancora. Quando arrivammo in Somalia negli anni novanta, venimmo a sapere che c’erano all’incirca 150 seguaci di Gesù di origine musulmana. Quando fummo costretti a lasciare quel paese circa otto anni dopo, solo quattro credenti erano ancora vivi.

Quattro.

La mia onestà con il Dio della Bibbia mi tormentava. Che cosa fa uno quando tutto intorno sembra essere crocifissione, e nulla assomiglia alla risurrezione? Di fronte a un tasso di mortalità tra i credenti Somali superiore al 97 per cento, non potevo né dire né pregare che tra i Somali “colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo” (1 Giovanni 4:4).

Avevo bisogno di esprimere le domande che erano nel mio cuore. Gesù è ancora degno di fiducia? È ancora il Signore dei posti più difficili del mondo, gli odierni Imperi Romani segnati da dure persecuzioni? Oppure Gesù è limitato alla chiesa Occidentale, così ben vestita, concentrata sugli edifici, istruita, teologicamente intollerante e divisa in denominazioni?

Io e mia moglie abbiamo trascorso ancora molti anni tra i credenti perseguitati, la maggior parte dei quali si riunivano in chiese domestiche, dietro le quinte, nascosti dai radar. Abbiamo viaggiato in più di 72 paesi e abbiamo incontrato più di 600 seguaci di Gesù che hanno vissuto — e che vivono — in contesti di persecuzione, sia dal comunismo, dal Buddismo, dall’Induismo, dall’Islam, o altro.

Questi giganti della fede cristiana di oggi ci hanno fatto da mentori, ci hanno insegnato, e ci hanno mostrato la potenza di Gesù. Erano uomini e donne, giovani e vecchi, istruiti e analfabeti, abitanti di città o di campagna. I loro nomi raramente sono conosciuti fuori dalle loro comunità circostanti. Non scrivono blog, non twittano e non scrivono post su Facebook, ma hanno insegnato a me e a mia moglie come seguire Gesù e come farlo conoscere in luoghi dove c'è persecuzione. E poiché li abbiamo supplicati, ci hanno mostrato come prosperare in tempi di estrema sofferenza, non solo come sopravvivere.

In un periodo in cui il nostro mondo era stato per troppo tempo caratterizzato dalla crocifissione, ci hanno mostrato la risurrezione.

Nell’ex Unione Sovietica, parlammo con due diaconi che erano stati imprigionati per tre anni in un campo di lavoro in Siberia. Ci raccontarono che un giorno circa 240 pastori furono portati nel campo, uomini che avevano rifiutato di rinnegare la loro fede.

A questi pastori fu assegnato il compito davvero impossibile di arare la tundra ghiacciata fuori del campo, utilizzando soltanto ramoscelli e attrezzi rotti. Ogni sera, come punizione per un altro giorno di inevitabile fallimento, erano spogliati dei loro indumenti intimi e bagnati con secchiate di acqua gelida. Nel giro di tre mesi morirono tutti di malattie varie, rimanendo ciascuno “fedele fino alla morte” (Apocalisse 2:10).

Questa non è storia antica. Questa storia, e altre centinaia come questa, è successa durante la mia vita. Alcune stanno succedendo proprio ora. Oggi.

La persecuzione è per i perdenti

Il settanta per cento circa dei cristiani pratica la loro fede in contesti di persecuzione. Nell’Occidente, per la maggior parte dei credenti è scioccante — perfino incredibile — che i discepoli di Gesù devono affrontare delle vere persecuzioni. In netto contrasto, più del 90% dei cristiani nell’Occidente non condividerà mai la buona notizia di Gesù con un'altra persona. Non lo farà. Mai. Nemmeno una volta.

In qualche modo il “vangelo” che amiamo è diventato talmente associato alla salute, alla ricchezza, e alla felicità da non lasciare più spazio alla persecuzione, almeno non per quelli che Dio ama davvero. Se mai ci capita di pensare alla persecuzione, interpretiamo la sua assenza dalle nostre vite come un segno del nostro rapporto privilegiato con Dio. Non c’è da stupirsi se preghiamo così poco per i nostri fratelli e sorelle perseguitati. Non c'è da stupirsi se difficilmente pensiamo a loro.

I sermoni di rado ci informano sulla chiesa sofferente o ci motivano a fare qualcosa per essa. Raramente un corso di teologia è volto a preparare i suoi studenti alla sofferenza e alla persecuzione. Preghiamo di più per i nostri militari che per la chiesa sofferente. Nonostante Gesù disse che ci mandava come “pecore in mezzo ai lupi” (Matteo 10:16), la maggior parte delle persone che frequentano il seminario o la scuola biblica sono formate per il ministero nazionale, a stare come pecore in mezzo alle pecore.

Allo stesso tempo, da qualche altra parte del pianeta, fratelli e sorelle credenti, che vivono ogni giorno in contesti di sofferenza e persecuzione, mostrano la potenza inesauribile della risurrezione. E di conseguenza i loro figli gli sono tolti. Subiscono percosse e sono messi in prigione. Muoiono come martiri.

Questo silenzio dell'Occidente è un silenzio che non posso né capire né accettare.

Un silenzio inaccettabile

Che cosa fa il nostro silenzio? Aumenta le sofferenze dei credenti perseguitati. Spezza il cuore di Dio. Dimostra che abbiamo dimenticato i membri della nostra famiglia eterna che convivono quotidianamente con la persecuzione.

Questo silenzio potrebbe significare che la cosa semplicemente non ci interessa.

Mia moglie esprime il cuore della questione quando chiarisce: “Non c'è una chiesa perseguitata e una chiesa libera. C'è soltanto la chiesa! C'è una chiesa — una chiesa che è allo stesso tempo libera e perseguitata”. Ebrei 13:3 fotografa perfettamente la nostra chiamata alla luce di questa realtà: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste!”.


Nessuna nazione e nessuna forma di governo dura per sempre. Quando la persecuzione arriverà da noi, saremo felici di sapere che altri pregano per noi e che ci sostengono, nella stessa misura in cui preghiamo e sosteniamo i nostri fratelli sofferenti oggi?

Ci sono momenti per stare in silenzio. Ma questo non è uno di quei momenti.

Questo è il tempo per dichiarare la verità, per ricordare, per recitare le storie.

Questo è il tempo per parlare di Dio, per condividere il vangelo, per cantare le promesse di Dio.

Questo è un tempo per pregare, per gridare a Dio per conto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, per fare affidamento sullo Spirito affinché interceda per noi — e per loro — quando le nostre parole non bastano.

Questo è il tempo per essere la chiesa — una chiesa, libera e perseguitata allo stesso tempo.

In verità, c’è un tempo per ogni cosa, e una stagione per ogni attività sotto il cielo. Davvero, c’è un tempo per stare in silenzio e un tempo per parlare.

Questo momento — il momento che stiamo vivendo noi oggi — è un tempo per parlare.



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