Il costo di dire addio per amore del vangelo
Acts 29 – Una famiglia globale e diversificata di chiese che fondano chiese
I vangeli parlano molto della morte e del morire, oltre che della risurrezione e della vita. E c’è un nesso tra le due cose: Gesù rispose loro, dicendo: “L'ora è venuta, che il Figlio dell'uomo dev'essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna. Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l’onorerà.
Non è una cosa astratta, ma un processo della vita reale per molti aspetti simile al lutto, o alla sofferenza, perfino alla morte. Alcune delle nostre scelte, fatte rinunciando alle nostre priorità per accogliere quelle di Gesù, conducono direttamente a situazioni ed emozioni che noi non avremmo scelto. Stando così le cose, come possiamo soffrire o essere tristi bene?
Queste sono considerazioni di vitale importanza per quanto riguarda gli aspetti pratici della fondazione di chiese. Non possiamo pensare per un solo momento che la fondazione di chiese sia la ricetta del successo incondizionato o della gioia sfrenata. Fondare chiese significa essere in prima linea nel ministero del vangelo, e c’è un prezzo da pagare. Sempre!
Uno dei costi di fondare chiese cui spesso non facciamo caso, o che nemmeno teniamo in considerazione, è il dolore acuto degli addii per amore del vangelo. Voglio affermare che queste sofferenze sono reali, e che costituiscono una forma di dolore. Ovviamente ci sono vari livelli di dolore, che hanno però delle caratteristiche comuni indipendentemente dalla loro intensità.
In che modo dunque piangi la perdita di qualcuno o di qualcosa quando o sei chi invia una squadra per fondare una chiesa, o sei uno di quelli che sono stati inviati a farlo? E come puoi farlo in un modo appropriato e che onora Dio?
Tanto per cominciare, dobbiamo ricordarci che non siamo degli stoici! Non siamo chiamati a tenere un comportamento stoico in tutte le circostanze. Forse questa è una tipica caratteristica di noi inglesi, ma tutti possiamo avere la tendenza a un tipo di discepolato “muscolare” che ci porta a pensare di dover andare avanti e basta. Ma uno dei veri misteri della vita ripiena dello Spirito è che la gioia e il dolore non sono incompatibili; lacrime e gratitudine non si escludono a vicenda; rabbia e contentezza non sono inconciliabili.
Quando le circostanze ci sono avverse, sappiamo che ciò non è dovuto a nessuna fatalità, a nessun caso del destino. Dietro ad ogni tragedia, ogni delusione, ogni patema c’è un Padre che conosce le cose meglio di noi, le cui vie sono però inscrutabili.
So che è così, e sono davvero grato che sia così. Di recente mi sono trovato a provare una grande tristezza che non solo mi inquietava, ma che era anche inaspettatamente gravosa. Ho cercato di riflettere sulle mie emozioni e su ciò che ha influito su di esse così tanto.
Per certo, ci sono stati alcuni che mi hanno detto che il dolore che provavo era dovuto all’idolatria: amavo troppo quello che ho perso. Ma non credo sia così. Non ho mai messo in discussione il carattere di Dio in questo triste periodo. Non ho mai dubitato della sua bontà. Il mio cuore non era indurito e non ero cinicamente rassegnato. Per niente! Stavo piangendo la perdita di una cosa buona.
Riflettendo su questo, credo che le mie sensazioni fossero più simili al gemere di cui Paolo parla in Romani 8. Un gemere che ripensa all’Eden e dice: “Non è sempre stato così”. Un gemere che attende impazientemente alla Nuova Creazione e dice: “Né sarà sempre così!”. Consentitemi di spiegarvi la nostra situazione in termini più mondani. Prego che la mia esperienza e la mia riflessione possano essere per te uno strumento di grazia mentre stai prendendo in considerazione la possibilità di iniziare a fondare chiese o magari ti stai già imbarcando in quest’avventura.
A causa di quello che consideravamo un bisogno e un’opportunità per il vangelo, mia moglie ed io abbiamo di recente lasciato un gruppo di persone a noi molto care. Come chiesa abbiamo coniato lo slogan “vita insieme, fianco a fianco, in missione” per descrivere il nostro duplice focus sulla missione e sulla comunità. E’ assai facile essere cinici, ma ci sono state volte in cui questo slogan non poteva essere considerato retorico, né una semplice citazione. A lungo abbiamo sperimentato una ricca vita condivisa con questi fratelli e sorelle. Anzi, potrei arrivare a dire che queste esperienze a volte sono state di uno spessore tale da renderle spiegabili solo per mezzo del vangelo.
Eppure abbiamo scelto di lasciare quel gruppo per servire da qualche altra parte. Quello che non potevamo sapere era che saremmo andati a finire, almeno a confronto, in un vuoto relazionale. Era come se ci fossimo trasferiti in un’altra città nei paraggi dove avevamo conoscenze anziché amici. Gli amici che avevamo lasciato, anche se non erano troppo lontani, avevano le loro vite e le loro responsabilità familiari. Con tutta la buona volontà al mondo, non erano più disponibili come in passato. Ed era giusto così.
Ma come ci ha lasciato tutto questo?
Ci ha lasciato nella tristezza, a piangere il senso di perdita. Perdita di persone specifiche di certo, ma in modo altrettanto significativo, di amicizia e collaborazione nel vangelo in genere. Piangere la perdita di una reale, tangibile esperienza di vita insieme, fianco a fianco, in missione. In realtà era il lutto per la perdita di una convinzione mantenuta da tempo. Era il piangere, se non la morte di una visione profondamente preziosa, almeno la sensazione che forse era così.
La domanda che mi si presentava era: come possiamo farlo bene, e in un modo cristiano? Ci sono almeno 3 elementi essenziali:
1. L’abbiamo confessato
Come ho detto, non siamo stoici. Non dovremmo avere la feroce determinazione a essere coraggiosi e a tirare dritto nonostante tutto. Il senso di perdita non andrebbe soltanto confessato ma anche, in un vero senso, celebrato! Non nel senso perverso che la sofferenza sia una cosa buona in se stessa, ma nel senso che la perdita racconta la meravigliosa storia di aver goduto qualcosa di vero e di bello.
2. L’abbiamo sentito
Con questo intendo che non abbiamo cercato di reprimere i sentimenti, ancora meno pentirci per essi. Non dovremmo mai poter semplicemente fare spallucce, abbandonare amicizie e passare alla prossima fase di vita. La tristezza non poteva dissolversi con uno schioccare delle dita, né alleviata da una buona dormita e da una tazza di tè! La sensazione di aver perso qualcosa di bello è davvero una buona cosa. E’ per questo che dovevamo accoglierla e sentirla, non respingerla e aggirarla.
3. Siamo andati avanti con essa
Ma in ultima analisi, abbiamo tirato dritto. Abbiamo deciso di camminare umilmente e fedelmente servendo senza sosta, grati per la bontà del Signore, soddisfatti della sua cura sovrana e consapevoli delle sue innumerevoli misericordie.
Come Paolo, sappiamo che la vita è contraddistinta dalle afflizioni del cuore. Con Paolo, confessiamo la tribolazione, ma dichiariamo che non siamo ridotti all’estremo. Confessiamo di essere perplessi, ma che non siamo disperati. Siamo profondamente grati perché non siamo mai abbandonati, e non saremo mai distrutti.
E come l’apostolo, non ci scoraggiamo. Perché? Perché sappiamo che questa momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria.