Condividere la vita con i rifugiati
La crisi dei rifugiati non può essere ignorata. Tutti i giornali del mondo ne parlano. Politici vincono e perdono elezioni su questa questione. Se c’è una cosa che potrebbe dividere l’Europa nei prossimi anni, questa è la crisi dei rifugiati. Forse hai visto le terribili foto di bambini dispersi in mare. Forse hai guardato documentari sui ragazzi perduti del Sudan. E’ probabile che nella tua città siano alloggiati migliaia di rifugiati che attendono di essere accolti nella tua comunità. Mentre il tuo aggregatore di notizie su Facebook riempie il tuo cuore di uno zelo al limite della rabbia, è probabile che ti domanderai: Che cosa posso fare io?
Nell’estate del 2015, la mia comunità missionale accantonò la nostra missione comune nel quartiere residenziale e tra vicini di casa per dedicarsi ai rifugiati. Lo Spirito operò in noi attraverso libri, giornali e le Scritture per guidare la nostra comunità all’unisono a interessarsi di queste persone emarginate non solo nella nostra città, ma nel mondo. Eravamo una comunità formata da consulenti informatici, insegnanti, avvocati, tassisti, traduttori, studenti, infermiere, scienziati esperti in ambiente e scrittori. Non sapevamo a cosa stessimo andando incontro. Il nostro viaggio ci portò a stringere amicizia con una famiglia Birmana e a contatto con Cristo, lasciandoci cambiati. Oggi voglio condividere la nostra testimonianza perché è un esempio di comunità missionale che potete seguire.
Missione comune insieme
La nostra missione comune per i rifugiati cominciò cercando di capire chi fossero e cosa volesse dire essere un rifugiato. Parlammo con alcuni operatori di centri di accoglienza e facemmo un po’ di ricerche. Ci volle solo una settimana per scoprire che c’erano migliaia di rifugiati nella nostra città, e che non potevamo prenderci cura di tutti. Decidemmo che avemmo dovuto collaborare con un’organizzazione, e qualcuno si offrì volontario per contattare tutte le organizzazioni della nostra città che si occupavano di rifugiati per trovarne una con cui lavorare. Qualche settimana dopo, invitammo un’operatrice di un’organizzazione umanitaria Luterana a uno dei pasti della nostra comunità missionale. Non riusciva a capire quello che stavamo per fare e il nostro desiderio di addentrarci in questo campo. Non aveva mai incontrato un gruppo di dieci persone che volevano conoscere e rapportarsi con i rifugiati per prendersi cura di loro. Ci suggerì di fare da “co-sponsor” di una famiglia in arrivo, il che significava che avremmo dovuto accoglierli all’aeroporto, accompagnarli ai vari appuntamenti, mostrare loro la città, aiutarli con l’Inglese … in pratica essere la loro famiglia. Rispondemmo: “Sì! Potresti assegnarci una famiglia nella nostra zona?”
Dopo che se ne andò, fummo presi dal panico. Non ho tempo per questo. Come faccio a sistemare un appartamento, incontrare persone all’aeroporto, portarle ai vari appuntamenti e creare un rapporto con loro? Non ho tempo sufficiente per far questo; sono troppo impegnato! Capimmo poi che come singoli non avremmo mai potuto prenderci cura di una famiglia, ma come comunità sì. Qualche giorno dopo ci fu assegnata una famiglia birmana di sei persone. Facemmo le corse per sistemare il loro appartamento: una persona acquistò tutto ciò che serviva alla famiglia, altri misero in ordine l’appartamento, un altro gruppo andò ad accoglierli all’aeroporto, e un altro gruppo acquistò beni di prima necessità come pentole, padelle, biancheria da letto e piatti dopo che la famiglia si trasferì nell’appartamento. La settimana dopo, la mia famiglia andò a trovarli per portare libri per bambini e vestiti. Mia figlia fece subito amicizia con i loro quattro figli. Nel corso dei mesi successivi, i membri della nostra comunità sono andati regolarmente a trovarli e a servirli. Nel corso del tempo, siamo diventati amici, e abbiamo parlato di Gesù. Ecco un elenco di alcuni modi in cui abbiamo condiviso questa missione:
Abbiamo sistemato la loro casa fornendo piatti, lenzuoli e altre cose necessarie.
Li abbiamo portati in spiaggia per fargli vedere l’oceano, abbiamo fatto un picnic, giocato a calcio e gli abbiamo fatto venire il mal d’auto!
Li abbiamo accompagnati a fare la spesa.
Li abbiamo aiutati a trovare dei cellulari.
Li abbiamo accompagnati all’ospedale e li abbiamo aiutati a comunicare con i dottori quando una delle loro figlie si era ammalata.
Abbiamo condiviso con loro il giorno del Ringraziamento (non hanno gradito molto il cibo).
Abbiamo letto storie per bambini.
Abbiamo fatto dei regali.
Li abbiamo aiutati a cercare lavoro e a scrivere email a potenziali datori di lavoro.
Li abbiamo aiutati con la loro contabilità, a leggere la loro busta paga e la loro posta.
Li abbiamo portati allo zoo.
Siamo andati a prenderli all’ospedale dopo un intervento chirurgico.
Li abbiamo portati a uno “shopping sfrenato” di un’organizzazione non-profit che permetteva alle famiglie di accedere a tanto abbigliamento invernale in buone condizioni.
Mentre tutto questo accadeva, loro continuavano a ospitare noi. Ogni volta che entravamo a casa loro, ci offrivano tè, biscotti e frutta. Ci servivano pur vivendo di buoni spesa in un paese straniero. Inoltre, non potevano parlare inglese e noi non sapevamo il birmano. Il loro inglese è migliorato tantissimo, ma all’inizio la nostra comunicazione era perlopiù silenziosa, impacciata e lenta.
Ci hanno insegnato due cose fondamentali sul partecipare alla missione di Dio: essere presenti è missionale e ricevere ospitalità è missionale. Il modo migliore di amare questa famiglia era (ed è ancora) farsi vedere e rendersi disponibili. Non avevano bisogno delle nostre chiacchiere, battute, carisma, e neanche della nostra intelligenza. Avevano bisogno che noi fossimo lì con loro, seduti nel loro soggiorno a bere il loro tè. Attraverso queste visite, Dio si è servito di noi per dire loro: Non siete soli, avete una dignità, e questa è casa vostra. In secondo luogo, anche se tutte le cose che abbiamo fatto per loro erano utili, l’unico modo in cui saremmo potuti diventare amici era se avessimo ricevuto il loro servizio, la loro generosità e il loro aiuto nelle nostre vite. Entrambe queste lezioni hanno sfidato il nostro orgoglio e la nostra autosufficienza più di quanto qualsiasi missione nel vicinato avesse mai fatto prima. Abbiamo dovuto imparare ad amare gli emarginati come amici sullo stesso livello anziché come persone alle quali doversi abbassare per servire.
Queste lezioni hanno sfidato il nostro approccio verso altre relazioni. Abbiamo cominciato a farci domande come queste:
Come possiamo frequentare di più i nostri colleghi di lavoro?
Come possiamo ricevere ospitalità dai nostri vicini?
Come possiamo presentarci con amici che non credono?
Amare i rifugiati significa perseguire relazioni e giustizia
Le persone che sei chiamato ad amare e a discepolare avranno molti bisogni. Ci saranno progetti di servizio, raccolte di fondi e donazioni. E’ probabile che dovrai svuotare il tuo portafoglio per seguire Gesù nella Sua missione. Benedizioni e doni saranno frequenti.
Un dono spesso dimenticato (e il più difficile da dare) è il dono della relazione. Per prendersi veramente cura degli emarginati è necessario instaurare una relazione con chi è vulnerabile. E’ attraverso una relazione che una persona passa effettivamente da essere emarginata a essere conosciuta. Quando qualcuno diventa un amico e un membro di una comunità, non è più spinto ai margini della società ma è accolto al suo interno. Immagina le persone con le quali sei in missione sedere alla tua tavola, condividere un pasto e raccontarti le loro cose. Immagina di ricevere nuove relazioni da coloro cui sei mandato. La missione non è un progetto: la missione sono persone.
Siamo rifugiati finché non troviamo il nostro rifugio in Lui
Infine, abbiamo imparato che siamo rifugiati senza il vangelo.
La storia di ogni rifugiato tocca i nostri cuori e li fa soffrire perché era anche la nostra storia prima che il vangelo non ci rendesse cittadini del Regno di Gesù. Siamo persone in fuga. Stiamo fuggendo dalle ferite del nostro passato. Stiamo fuggendo dai nostri aguzzini e oppressori. Siamo alla disperata ricerca del nostro posto in questo mondo, di trovare un angolino in questo mondo dove essere apprezzati, guariti e ristabiliti. Cerchiamo quel genere di rifugio nelle nostre carriere, possedimenti, famiglie, nazioni e vacanze. Nessuna di queste cose ci offre una casa.
Una volta eravamo tutti nel regno delle tenebre, erranti e lontani da Dio. Ma Gesù ci accoglie come cittadini del Suo regno. Siamo stati trasportati nel regno glorioso di luce. Non siamo più a caccia di un posto in questo mondo. Non siamo più rassegnati a essere i re di noi stessi. Al contrario, abbiamo trovato la nostra casa in Gesù nostro Re e le nostre vite sono plasmate dalla vita nel Suo regno di compassione, grazia, perdono, amore e speranza.
Accogliamo i rifugiati nelle nostre case e nelle nostre comunità perché Dio ci accoglie e perché abbiamo trovato la nostra dimora in Lui. Abbiamo cura della vedova vulnerabile perché noi siamo vulnerabili. Ci prendiamo cura dell’orfano perché noi eravamo orfani. Amiamo i poveri perché eravamo poveri in Spirito.
Brad Watson è anziano delle Comunità Bread & Wine di Portland (Oregon), dove insegna ed equipaggia i leader a formare comunità che amano Dio e servono la città. E’ autore di diversi libri, tra i quali Sent Together: How the Gospel Sends Leaders to Start Missional Communities. Ha una laurea in teologia conseguita al Western Seminary.
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