Accesso consentito solo a persone disastrate: Verso una cultura di grazia

Qualche tempo fa, un amico cristiano venne da me in preda allo sconforto. Aveva bevuto troppo mentre era fuori con alcuni amici. Li conosceva da anni e beveva regolarmente insieme a loro con moderazione, ma in quell’occasione aveva perso il suo autocontrollo. Per quel che ne sapeva, aveva appena rovinato diversi anni di testimonianza.

Un gruppo di noi in chiesa stava discutendo come promuovere il ministero di preghiera offerto ogni domenica al termine del servizio. Stavamo pensando come incoraggiare più persone ad avvalersene, quando una signora disse: “Beh, io non ne farei ricorso. Mi darebbe fastidio che altre persone pensassero che ho un problema”.

Entrambi questi episodi rivelano un malessere nascosto in molte delle nostre chiese. Non sono sicuro che crediamo veramente nella grazia. Ci crediamo, nel senso che la insegnamo e le diamo il nostro assenso nelle nostre confessioni di fede. Ma nel senso di viverla realmente, forse non ci crediamo.

Addetti alle pubbliche relazioni per Gesù 

Sospetto che il problema sia una sorta di errore nella nostra formula di cosa significa vivere per Cristo. Pensiamo di essere i suoi addetti alle pubbliche relazioni: Se do una buona impressione di me stesso, allora do una buona impressione di Gesù.

Detestiamo quindi il pensiero di non dare una buona impressione. Lo consideriamo un fallimento.

Ma quando questo modo di pensare pervade l’intera chiesa, la nostra vita comunitaria diventa una questione di performance. Indossiamo la nostra maschera migliore di cristiani, facciamo un bel respiro, e andiamo in chiesa. Se i genitori cristiani adottano questa mentalità, la genitorialità consisterà nel cercare di comportarsi bene davanti ai figli, facendo in modo che vedano in noi soltanto lo standard più elevato di condotta cristiana.

Può essere un modo comune di pensare, ma gli effetti sono disastrosi. Porta all’ipocrisia. La realtà è che non siamo buoni, e che possiamo mantenere la nostra facciata solo per un pò di tempo prima che saltino fuori le crepe. I nostri figli se ne accorgono subito. Sanno come siamo fatti veramente e capiscono subito quando cerchiamo di rivestirci di cristianesimo. E quando combiniamo davvero un bel pasticcio, l’ultimo posto dove vogliamo andare è la chiesa. Lì dovremmo apparire dei bravi cristiani, così quando sappiamo di non poter fingere che tutto è a posto, è meglio non andarci. Meglio tenere il disastro lontano dal santuario.

Tutto questo è un segno che, anche se a parole professiamo di credere alla grazia, in realtà non stiamo vivendo in una cultura di grazia. Non siamo gli addetti alle pubbliche relazioni di Gesù, e lui non è un nostro cliente. Siamo uomini e donne traviati, ed egli è il nostro Salvatore. Non è che io devo dare una buona impressione in modo che Gesù appaia buono; devo essere onesto sul mio enorme bisogno spirituale in modo che egli appaia pienamente sufficiente. Non cresco affinché egli cresca; io diminuisco affinché egli cresca (Giovanni 3:30). Questo vuol dire essere onesto con i miei difetti, e non sentirmi imbarazzato per essi.

Una cultura di grazia

Pensa alla differenza che questo farebbe nella nostra testimonianza. Anziché pensare di dover costantemente apparire meno peccatore di ogni non credente che conosco, sono invece libero di essere me stesso, nel bene e nel male, in modo da poter mostrare che la mia fiducia non è in me stesso. Il mio amico che ha bevuto troppo ora ha la straordinaria opportunità di essere un autentico testimone di Cristo—senza dover fingere che noi cristiani siamo immuni al peccato, ma dimostrando che cosa ne facciamo del peccato. Se essere cristiani riguarda la performance, allora il mio amico ha davvero rovinato la sua testimonianza e sarà troppo imbarazzato per rivedere i suoi amici. Ma se riguarda il perdono, allora potrà dimostrare il ravvedimento, la contrizione per il peccato e il conforto che offre il Salvatore.

Immagina anche la differenza che questo farebbe nella nostra vita di chiesa. Anziché ricevere il marchio di persone che non sono spiritualmente a posto, possiamo incontrarci come un gruppo di persone che parlano apertamente del loro enorme bisogno spirituale. La premessa non è più: “Dobbiamo essere bravi se veniamo qui”, ma invece diventa: “Devi essere un vero disastro per venire qui—grazie al cielo non solo l’unico”. Quale delle due premesse secondo te è più attraente? Quale favorirà una confessione e un ravvedimento pubblico più profondi? Invece di sentirti imbarazzato di farti avanti per ricevere preghiere, puoi sperimentare la gioia e il sollievo di sapere che alla fine stiamo tutti nella stessa barca.

La grazia, allora, non è più soltanto una dottrina formale ma una realtà percepita. Nessuno è troppo debole, troppo lontano, troppo bisognoso (e l’elenco potrebbe continuare) da temere di trovarsi fuori luogo qui. La nostra testimonianza non è: “Ero un disastro, poi è arrivato Gesù, e adesso ho tutto sotto controllo”, ma “Ero un disastro—e lo sono ancora—ma sono un disastro che appartiene a Gesù, un disastro che egli si è impegnato a rimettere in ordine. E’ venuto da me, è rimasto con me, e continua a essere tutto per me”.

Possiamo veramente dire con John Newton: “Non sono quello che dovrei essere, non sono quello che voglio essere, non sono quello che spero di essere un giorno—eppure non sono quello che ero una volta, e per la grazia di Dio sono quello che sono”.


Sam Allberry è redattore per The Gospel Coalition e relatore per Ravi Zacharias International Ministries. E’ autore di diversi libri, tra i quali Dio odia i gay? e 7 Myths About Singleness. Puoi seguirlo su Twitter.

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