Non mi piace il mio lavoro. E adesso?

Intervista di Tony Reinke

Questo articolo è la trascrizione di un file audio

E’ ancora con noi Tim Keller, autore del libro intitolato “Every Good Endeavor: Connecting Your Work to God’s Work”. Ieri ho parlato con lui sui temi importanti come il lavoro, la vocazione e la chiamata. Nel farlo abbiamo parlato con laureati universitari, con genitori e con cristiani che si sentono intrappolati nel loro lavoro.

Andiamo avanti e parliamo di un ragazzo o di una ragazza che sta scegliendo quale carriera intraprendere. Una delle cose che scrivi nel tuo libro è che a New York City parecchi giovani brillanti si laureano e poi scelgono quale carriera intraprendere. La carriera diventa la loro identità, un vero e proprio status symbol. Potresti spiegarcelo?

Di recente sono stati scritti molti pregevoli libri sull’idea che viviamo in un’era consumistica nella quale la nostra identità è definita in base ai prodotti che consumiamo. Sono il tipo di persona che indossa questo genere di vestiti, possiede questi apparecchi elettronici. Uso questi accessori. Ricavi effettivamente la tua identità dai marchi che utilizzi. Temo che la stessa cosa sia successa anche per quanto riguarda il lavoro. Non c’è alcun dubbio.

Vedo parecchie persone accettare lavori che non sono adatti a loro: a) non si adattano bene ai loro talenti, e b) molto spesso succede che il lavoro non li soddisfi perché non è molto utile alle persone, tuttavia quel lavoro conferisce uno status elevato. E poiché consentono di ottenere uno status elevato, le persone sentono di dover fare quel lavoro per sentirsi bene con se stesse. Perciò il lavoro diventa un indicatore d’identità. Molto spesso le persone non scelgono il lavoro sulla base della vocazione. Non pensano: “Quali sono i miei talenti e come posso essere utile agli altri attraverso il mio lavoro?”. Pensano invece: “Come posso ottenere un lavoro che mi dia la stessa sensazione di autostima che ho quando guido un certo tipo di auto?”

Va bene. Adesso ti faccio una domanda ipotetica che credo sia rappresentativa delle tante domande sulla moderna etica di business che riceviamo nella casella della posta in arrivo. Immaginiamo che nell’antica Babilonia ci sia un uomo che produce paglia e che teme Dio. E’ bravo nel suo mestiere. Lavora sodo. Offre un buon servizio ai suoi acquirenti. Consegna sempre in tempo la sua paglia. E’ gioioso. E’ umile e piace alle persone. Ma la sua paglia è poi utilizzata per fabbricare mattoni rinforzati cotti che sono messi uno sopra l’altro nella costruzione della torre di Babele. La domanda è questa. Fino a che punto la vocazione del produttore di paglia è virtuosa o non virtuosa? O, per metterla in un altro modo: Fino a che punto il cristiano è responsabile dei fini ultimi dell’azienda per la quale lavora, la quale potrebbe esistere solo per costruirsi un grande nome?

Credo che prima di cercare di capire questo uno dovrebbe collaborare in modo molto diretto con il male. Vedi, il problema dell’atteggiamento purista è questo: Se faccio il pane e so che ci sono criminali nella città che mangiano quel pane e che continuano a vivere grazie al mio pane, dovrei forse lasciare quel lavoro? Dovrei dire: “Beh, solo una certa percentuale è formata da criminali, ma li sto aiutando a vivere”?

Lutero si farebbe una risata all’idea che tu in qualche modo puro debba assicurarti che il tuo lavoro promuova soltanto dei fini giusti. Egli dice: Dio nutre tutto ciò che respira. Lutero espone i Salmi, specie i Salmi 145, 146 e 147 che parlano di come Dio dà cibo a tutto ciò che respira. Dio ama tutto quello che ha creato. Poi Lutero dice: In che modo Dio dà cibo a tutti? Beh, egli dà loro cibo attraverso l’agricoltore. Egli dà loro cibo attraverso il mungitore che munge la mucca. Egli dà loro cibo attraverso il camionista che porta quei beni al mercato. Ne consegue che quella è davvero l’opera di Dio. Se stai semplicemente coltivando i campi, stai facendo l’opera di Dio. Non è necessario che tu sia un contadino cristiano. Basta che fai il contadino e sei incluso nell’opera di Dio.

Ma credo che a un certo punto — lo credo perché sono Riformato e credo nell’importanza della visione del mondo — quel lavoro deve anche essere svolto secondo una prospettiva cristiana. Lutero aveva qualcosa da dire in merito: ogni lavoro è dignitoso se fatto bene. E se ti chiedi: “Questo lavoro sta aiutando qualcuno a promuovere fini malvagi?”, a un certo punto ti ritroveresti completamente paralizzato. Non potresti fare niente.

Un’ultima domanda, Tim. Che cosa diresti a un cristiano che non ha molta opportunità di scelta, ha un lavoro perché quello era l’unico disponibile, non perché l’ha scelto tra dodici opzioni disponibili? Che cosa diresti a un cristiano che è, o che si sente, fossilizzato nella sua vocazione: Come si applica la dottrina della vocazione nella sua situazione?

La visione che Lutero aveva della chiamata è che la giovane contadina che munge la mucca — anche se quello è l’unico lavoro disponibile e lei vorrebbe andare da qualche altra parte — deve considerare quello che sta facendo come la chiamata di Dio. Deve capire che non si tratta solo di mungere mucche. Questo è il mio modo di partecipare nella cura che Dio ha per la sua creazione, perché egli ha stabilito che questo è il mio modo di farlo.

C’è un posto, non ricordo in quale salmo, dove Lutero dice: Dio rinforza le sbarre delle porte della tua città. In altre parole, egli ti dà sicurezza. Poi Lutero dice: Ma in che modo Dio rinforza le sbarre delle porte della tua città? Egli lo fa attraverso buoni governatori, bravi poliziotti e validi soldati. Quello che stava cercando di comunicare è che ogni lavoro onesto, svolto bene, è la chiamata di Dio.

La visione Calvinista della chiamata (fare l’opera di Dio secondo una visione del mondo cristiana) e la visione Luterana della chiamata (prendersi cura della creazione ed essere utili agli altri attraverso il tuo lavoro) sono complementari. Ritengo davvero che siano complementari. Devi utilizzare entrambe.

Considerare il tuo lavoro come una chiamata non è quindi un problema se ti senti intrappolato in un lavoro che non ti piace. Devi pensare che in questo momento il tuo lavoro è comunque la chiamata di Dio e questo ti dà molta pace per dire: “Posso ancora rispondere alla chiamata di Dio in questo lavoro, anche se sto cercando un lavoro più attinente ai miei doni”.


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Tony Reinke è un autore dello staff di Desiring God. Ha scritto tre libri: 12 Ways Your Phone Is Changing You (2017), Newton on the Christian Life: To Live Is Christ (2015), e Lit! A Christian Guide to Reading Books (2011). Conduce il popolare podcast Ask Pastor John, e vive a Minneapolis-Saint Paul con la moglie e i loro tre figli. Ha anche un blog: tonyreinke.com.

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